Novembre 2021
Ho atteso oltre 40 anni per posare i miei piedi sul suolo dell’India. Un sogno giovanile la cui realizzazione era stata resa impossibile dal corso degli eventi che già a venti anni avevano dato una precisa direzione alla mia vita. Il fascino dell’India era negli olii profumati, negli incensi, nell’odore delle confezioni in garza ricamata e in tutti gli oggetti di provenienza indiana che riempivano il piccolo negozio chiamato Ciaf, in centro città. E non era solo questo: erano le letture sull’induismo, sugli yogi, sulla meditazione, e la magica musica indiana di Ravi Shankar, tutto ciò accompagnava e alimentava i miei sogni. Quando uno dei miei figli svolse un lavoro temporaneo a Rotterdam, mi raccontò che dall’appartamento vicino al suo provenivano bellissime melodie orientali, si trattava di un ragazzo che studiava flauto indiano.
Poi, nel secondo viaggio in India che feci insieme a lui, nella città dove scorre, ancora giovane, impetuoso e splendente il sacro Gange, io ascoltai, per la prima volta un suonatore di bansuri. Conoscevo la musica del sitar e delle tabla e il canto indiano, ma non mi ero mai accorta dell’esistenza del flauto traverso indiano di bambù. Fu mio figlio che me lo fece notare, perché era lo stesso che aveva già sentito a Rotterdam.
Rientrata a casa presi ad ascoltare la musica indiana in cui il bansuri era lo strumento solista, e cominciai a pensare che avrei potuto imparare anch’io visto che, nella mia scarna formazione musicale, proprio il flauto, quello dolce, era stato lo strumento con cui avevo fatto pratica alle scuole medie e anche successivamente per mio piacere.
Ora ero alle soglie del pensionamento e presto avrei avuto tanto tempo libero per coltivare antichi amori come il flauto e l’India.
Rapidamente, attraverso Internet, individuai i “grandi” del bansuri, e poi cercai un Maestro italiano, gli scrissi, incredibilmente mi rispose subito, andai a Milano a conoscerlo, per rimanere letteralmente rapita dalla sua musica e dalla sua classe di allievi, dalla magia di tanti bansuri che suonano insieme.
Sì, era confermato, volevo imparare.
Non avevo fatto i conti con le mie dita che per sei lunghi mesi non riuscirono a chiudere correttamente, sul flauto più piccolo, quello per principianti, i fori.
Ma poi, quando le dita arrivarono dove dovevano arrivare, mi attendeva un compito ancora più arduo, lo studio della complessa architettura della musica indiana, un luogo sconosciuto e ricchissimo di forme colori e significati. Strumento difficile, musica difficile. Pensai di abbandonare, poi realizzai che ci voleva solo tempo, tanto tempo che io avevo, perché praticare sarebbe stata la mia preghiera quotidiana, il mio respiro, a volte la mia frustrazione e a volte la mia gioia.
Bisogna esserne innamorati per non arrendersi.
Sono trascorsi più di 5 anni da quell’inizio e continuo a praticare. Sono passata ai flauti più grandi e più bassi di tonalità, sempre più belli e dai toni più intensi.
Licostruisce il mio Maestro italiano che ho seguito per quasi due anni per poi continuare da sola, con i miei tempi, con la mia lentezza.
Mi sento ancora sotto la sua guida però, perché ho messo in ordine tutto il materiale che ho raccolto in quei due anni, che è tanto e non mi basterà tutta la vita per studiarlo, e anche perché custodisco, come impresse nella mente, molte sue parole.
Mi dicono che devo fare musica anche quando eseguo un semplice esercizio, e che le note di un raga vanno presentate ad una una, con lentezza e precisione, per costruire quel paesaggio familiare in cui sentirsi a casa, una casa dove soprattutto c’è pace. E ancora, mi dicono che i raga sono dei vecchi amici con i quali ho stretto un legame profondo e sincero e che tornano a trovarmi, al mattino, alla sera, e nelle stagioni che si avvicendano, per rinnovare sempre questa amicizia.
Essere brava mi piacerebbe, ma non è quello che conta, non sono una musicista, per fortuna non devo esibirmi, voglio solo sedermi e praticare, cercando di far risuonare nel bambù forgiato il suono antico e profondo, che a volte sento e a volte no, ma questa è la mia ricerca, e mi alleggerisce la vita.
Valeria
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